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A Bologna, l’ultimo Carabiniere del Re
Era a Roma, al Quirinale, nel giugno del 1946, e così ricorda Umberto e “quell’antipatico di Vittorio Emanuele
A gennaio ha compiuto 89 anni, 65 dei quali vissuti a Bologna, dove era arrivato da Carabiniere già con un bel po’ di avventure alle spalle. Ha il nome raro di Bonifacio, ma tutti lo hanno sempre chiamato Boni, magari pensando si trattasse del cognome. Calabrese di nascita, a 18 anni si arruolò nell’Arma e…
«Nel 1945, alla fine della guerra, mi mandarono a Roma. Da ragazzetto mi facevano spesso fare la guardia all’Altare della Patria, d’estate», ricorda. «Quando poi a Bologna sentivo la gente che diceva di essere stata trattata come una pezza da piedi sapevo benissimo che cosa significava. Noi Carabinieri non portavamo calze dentro gli stivali, ma bende, fasciature, che dopo un turno d’estate erano bagnate, come si dice, in maniera fradicia».
– Poi la mandarono al corpo di guardia del Quirinale e lì avrà vissuto meglio.
«Sì, ma c’era sempre un po’ di tensione e ci obbligavano al massimo della disciplina e della compostezza. Peccato che scorrazzasse libero il piccolo Vittorio Emanuele, che era una antipaticissima peste: quando eravamo dritti e fermi ci tirava dei sassi, dei topi morti, ci tirava per la giacca. Il padre invece era un gentiluomo, cortese e disponibile. Vuole sapere una cosa curiosa?».
– Dica.
«Al referendum del 2 giugno 1946 ho votato anche io, nonostante avessi solo 20 anni, perché era stata deliberata al volo una legge che consentiva ai Carabinieri di andare alle urne anche se non avevano ancora raggiunto la maggiore età».
– E lei come tanti delle Forze dell’ordine votò per la Monarchia?
«Il motto dell’Arma è “Nei secoli fedele”. Allo Stato, alle sue leggi, non alle persone e secondo il momento, che nell’occasione per noi era il Re. Poi è diventata la Repubblica? E noi le siamo diventati fedeli senza nessun cambio di opinione».
– Lei mi ha anticipato un ricordo particolare del suo servizio al Quirinale.
«Quando subito dopo il 2 giugno Re Umberto ha lasciato Roma e l’Italia, io ero l’ultimo della fila nel picchetto che lo salutava. A ognuno di noi, passando, chiese di non stare sull’attenti e di dargli la mano e a ognuno regalava un pacchetto di sigarette. Arrivato da me, me lo diede sorridendo e dicendo “Questo è l’ultimo che ho”, mettendo il pacchetto sulla mia mano e stringendola con tutte e due le sue».
– Quando è arrivato a Bologna?
«Quell’estate mi hanno mandato in provincia di Modena, in un periodo ancora difficile del dopoguerra: ha presente il Triangolo della Morte, con tutte le vendette e controvendette consumate per molto tempo dopo il 1945. Poi mi spostarono a Lama Mocogno, sull’Appennino, un po’ più tranquilla della pianura ma con un freddo che non avevo mai provato. Quindi, trasferimento in Sicilia per la caccia a Salvatore Giuliano e là mi sono preso una pallottola nella gamba. Nuovo trasferimento a Bologna, dove nel 1951 o 52, non ricordo, durante un’operazione di salvataggio di una casa in fiamme mentre aiutavo la gente a uscire misi un piede su un filo scoperto dell’alta tensione. Mi fu proposto di lasciare l’Arma e di entrare da civile nello stesso Ministero della Difesa, dove infatti ho lavorato per altri trent’anni».
– Io però so che faceva un’altra professione particolare.
«Sì, l’investigatore privato. Ho lavorato molto negli anni Sessanta ma non come quell’agente segreto dei film, 07 o come si chiamava. Il mio incarico principale era quello di beccare sul fatto mariti o mogli infedeli e ci sarebbero tanti episodi divertenti da ricordare, ma anche tante notti consecutive all’aperto ad aspettare che partisse una macchina o si aprisse una porta. A quei tempi, nell’attesa e non avendo altro da fare, ho preso il mio vizio più grande: il fumo. Ho consumato anche cinque pacchetti di sigarette al giorno e quasi tutti i giorni. Ho smesso vent’anni fa, dalla sera alla mattina e sono ancora qui».
– Com’è cambiata Bologna dal suo arrivo ad oggi?
«E’ cambiata la gente, che adesso mi pare molto più chiusa e diffidente. In quanto alla criminalità posso solo dire che all’epoca sapevi per certo quali ambienti controllare ed era tutto molto più circoscritto. Anche allo stadio o la sera tardi nei bar, se qualcosa scoppiava si risolveva in due cazzotti e soprattutto gli altri non se ne fregavano, ma si mettevano in mezzo per calmare tutto. Oggi mi sa che c’è più, come si dice?, menefreghismo».
– In conclusione: i suoi luoghi del cuore, a Bologna?
«I Prati di Caprara dove ho lavorato per tanti anni, il Lord Bar all’inizio di via Indipendenza venendo dalla stazione. Piazza Maggiore dove andavo la sera a parlare di politica, quando ogni estate di elezioni, praticamente tutte, negli anni 70, ognuno portava o da mangiare o da bere in attesa dei risultati scontati. Io non ero proprio allineato alla maggioranza locale, ma fra uno sfottò e l’altro eravamo davvero amici. Ecco, penso che oggi non potrebbe più succedere di tagliare pane e salame insieme o stappare una bottiglia per tutti subito dopo un comizio».
Franco Montorro
19 Ottobre 2015