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L’autunno nero delle Vu Nere
Questa Virtus è una squadra figlia di nessuno, ma le colpe di chi l’ha ridotta così hanno molti padri
In casa Virtus, siamo tornati alla fine degli Anni ’60, quando le Vu Nere si giocarono la permanenza in Serie A agli spareggi. Sì, più di recente, c’è stato il periodo nel purgatorio della Legadue. Ma una cosa è certa: una simile congiunzione non astrale di circostanze negative non era mai accaduta e può essere che non sia solo la mediocrità della squadra, se non riferita alle ultime stagioni, perché ripetuta e dunque da considerarsi come una vera e propria malattia che attacca soprattutto quell’altra – spesso benigna – che si chiama tifo. Inutile negarlo, la passione per la Virtus non è quella di un tempo e ad affievolirne la fiamma hanno contribuito in parte solo i risultati. E’ l’immagine stessa del club ad avere perso appeal nel suo complesso e non è un caso che tutto sia nato nell’ultimo periodo della gestione Sabatini quando l’imprenditore cominciò a mostrare chiari segnali di insoddisfazione per il giochetto e partì il valzer degli esoneri e delle squadre rivoluzionate, con una Virtus che perdeva via via identità, oltre che qualità. E il deteriormento di questa intensificava il processo di decremento dell’altra. Aggiungiamo, sempre a proposito di identificazione, il progressivo e a volte discusso fine del legame con personaggi storici ed ancora attualissimi per esperienza e importanza – da Consolini a Terrieri, da Villalta a Sanguettoli – in un club che dalla fine dell’era Cazzola in poi, e quindi sono 15 anni esatti, sembra sempre essersi come vergognato del suo glorioso passato e che quindi non abbia ad mai fatto nulla di particolare per portare grandi giocatori dal passato bianconero ad avere un ruolo attivo in società. Magari la vergogna o quel che è, un motivo ce l’aveva: eliminare scomodi metri di paragone.
Poi è nata la questione mai digerita da molti dei biglietti omaggio, lontanissimi i tempi della Virtus porelliana quando nessuno entrava gratis e non c’era un posto libero e se parliamo del PalaDozza di un tempo alla fin fine parliamo di un di spettatori sugli spalti che oggi all’Unipol Arena non si vedono neanche con molti ingressi gratuiti. E tante altre frizioni che hanno spinto diversi a starsene a casa o ad andare a palazzo meno spesso.
E di fare l’antipatico, diciamo così, te lo puoi permettere solo se vinci, che ti chiami Mourinho o Cazzola, perché posso anche assistere ad un concerto dal vivo di Vasco Rossi e Ligabue insieme in tour seduto su un prato, ma se mi fai ascoltare una banda di sconosciuti stonati su una poltrona pagata caraissima e con di fianco una che la ha avuta gratis, beh… ho conosciuto tempi e gente più simpatica.
Dice: c’è la crisi. Appunto e per questo converrebbe vendere 10 biglietti da un euro piuttosto che uno da 10, eppoi la crisi c’è per tutti e come mai che regolarmente davanti alla Virtus hanno preso a classificarsi realtà come Sassari, Reggio Emilia, Venezia, Brindisi? Perché hanno più soldi. No, perché sono più bravi.
Dicevamo dell’antipatico, ma vincente Cazzola, che sosteneva la teoria della “panchina lunga e della società corta”. Cioè, tanti giocatori di buon livello, ma uno solo a comandare. Il contrario dell’attuale Virtus. Che non è vincente e non è più convincente. E che rischia davvero di dover riscrivere la sua storia, nel caso non fosse più il club mai retrocesso dalla Serie A. Questa Virtus è una squadra figlia di nessuno, ma le colpe di chi l’ha ridotta così hanno molti padri.
Franco Montorro
20 Ottobre 2015