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Stefano Michelini: ah, la torta di riso…
Profondo esperto di basket, è anche un appassionato della cucina bolognese. Ecco i suoi consigli per mangiare bene spendendo il giusto
Ha vinto l’ultimo premio speciale del Trofeo Reverberi, l’Oscar che premia le eccellenze della pallacanestro italiana, per la sua versatilità prima da allenatore e poi da opinionista TV, e con Stefano Michelini (nella foto, a sinistra con Franco Lauro) ho avuto e moltissime conversazioni di carattere cestistico che nei tempi migliori – tempi passati – iniziavano o si concludevano sempre con una barzelletta. «Purtroppo se ne sentono sempre meno di belle – dice Stefano – ed è un brutto segnale quando l’ironia fatica a sopravvivere».
Bolognese della più bella acqua, e c’è un perché a questa definizione, Michelini è un esperto anche di gastronomia, ha girato per trattorie e ristoranti d’Italia in lungo e in largo.
-Partiamo dall’acqua, Stefano?
«A casa mia c’era la grande fontana, l’abbeveratoio, la “Bevrèra” che ha dato il nome a Via Beverara. Quando sono nato io era una zona un po’ agitata di Bologna: «Qui si piantano i fagioli e nascono i ladri», dicevano. Noi eravamo una grande famiglia, alla domenica eravamo anche in venti a tavola e comandavano le “Arzdoure”, naturalmente.
– Di tanti anni fa tu racconti la bellissima storia dell’Osteria Ghitoni in Via del Pratello.
«Dal “Ghiton” si mangiava la minestra di fagioli a tempo, da un pentolone a centro tavola. Cioè, uno entrava e diceva: “Voglio mangiare per dieci minuti” e quelli aveva a disposizione. Per dire del livello dei frequentatori, i cucchiai erano legati al tavolo con delle catenelle».
– Qual è il tuo piatto non bolognese preferito?
«Ho avuto la fortuna di stare a contatto con persone vere, pescatori, marinai, gente del posto che ti faceva mangiare da loro. Dico la pasta con le sarde in Sicilia e il porceddu in Sardegna».
– Luogo comune: a Bologna si mangia peggio di un tempo.
«Non frequento posti di alto livello, a quello medio esistono ancora locali giusti. In generale noi bolognesi siamo sempre troppo portati alla critica, al buttarsi giù e forse perché siamo stati così bene da non rassegnarci ad un minimo declino. Io mangio molto bene da Nonna Aurora in Via Fioravanti. Per le tagliatelle vado al Biacchese a San Lazzaro, con qualche chilometro in più vado al bar-ristorante Pedretti a Pioppe di Salvaro: otto posti in tutto. Oppure alla Tramvia di Pieve di Cento. Tutti posti, bada bene, dove cucinano sempre ancora le vecchie, classiche, care arzdoure».
– Le rane?
«Il posto storico era Filippetti alle Cave del Reno. Adesso, come il risotto, sono buone al Paradisino, alla Barca».
– Qual è stato il tuo peggiore peccato di gola?
«A 19 anni, la sfida dei primi piatti in una battaglia fra bar. Bisognava mangiare un piatto di tagliatelle, uno di tortelloni, uno di lasagne, uno di cannelloni e quindi di nuovo da capo con le tagliatelle. Il mio avversario si è bloccato a metà del dodicesimo piatto, io quei cannelloni li ho finiti, poi ho attaccato con la quinta tagliatella ma da lì in poi non ricordo più niente».
– Vuoi non parlare di basket? Se la Virtus fosse un piatto tipico bolognese sarebbe…?
«Una cotoletta alla bolognese ma cucinata in maniera a divenire, fra tradizione e innovazione».
– La Fortitudo?
«Uso un altro tipo di metafora. Per il pubblico che ha, per l’impianto in cui gioca, per i campionati che di recente ha disputato, è come mangiare tagliatelle fritte la sera al Diana. Cioè, doversi accontentare di avanzi in un locale prestigioso».
Franco Montorro
30 Ottobre 2015